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Cita questo articolo come: Sartor, Marco. 2020. «Studi umanistici e digitale: dialogo con Filippomaria Pontani.» Humanities for Change (blog), 2 ottobre 2020. https://bembus.org/2020/10/02/studi-umanistici-e-digitale-dialogo-con-filippomaria-pontani/.

La diffusione delle tecnologie informatiche su vasta scala occorsa nell’ultimo quarto di secolo ha determinato anche nell’àmbito degli studi umanistici un radicale ripensamento dei metodi e degli strumenti della ricerca scientifica e della didattica universitaria. Il confronto con software in grado di generare concordanze, indici di parole e rimari, la consultazione di programmi per ricerche fono-morfologiche, sintattiche e semantiche e l’interrogazione di complesse banche dati sono oggigiorno alcune delle operazioni che gli studiosi (e spesso anche gli studenti) di discipline umanistiche compiono più comunemente. Il cambio di paradigma derivante dall’apporto della scienza dei calcolatori ha coinvolto anche le attività dei ricercatori meno propensi alle innovazioni (si pensi molto banalmente ad una semplice ricerca sul web o alla consultazione di un volume su Google Books), al punto che la trasformazione in atto è stata sovente equiparata all’altrettanto epocale passaggio dalla civiltà del manoscritto a quella della stampa. Si tratta invero di una metafora frusta e in parte impropria perché la rivoluzione gutenberghiana si svolse sotto l’egida di una cultura umanistica che nell’era dei big data è sostituita dal predominio della techne. Ciononostante, l’immagine si presta a rendere conto con particolare efficacia del cambiamento epocale cui stiamo attendendo, caratterizzato in prima istanza dall’accesso immediato (e in molti casi gratuito) ad un sapere prêt-à-porter costituito da una mole sconfinata e indefinita di dati in continuo accrescimento.

Oggi i cultori degli studia humanitatis si affidano alla rete per svolgere una nutrita serie di attività che spaziano dalla ricognizione bibliografica alla consultazione in linea di testi e documenti, finanche alla pubblicazione dei risultati delle proprie ricerche. Operazioni, queste, che indubbiamente fanno accarezzare il brivido di “possedere” un sapere che fino a pochi decenni fa era del tutto inaccessibile; tuttavia, superata l’iniziale ebbrezza della rivoluzione tecnologica, non sarà difficile scorgere anche alcuni abbagli e storture ai quali gli umanisti devono far fronte per non rimanere ostaggio del nuovo medium. A partire dall’assunto che il digitale deve essere al servizio delle discipline umanistiche, ovvero costituire un “mezzo” per la ricerca accademica e non il “fine” ultimo della stessa, donde il rischio – in caso contrario – di indagini funzionali solo all’avanzamento tecnologico e non agli studi umanistici in sé. Da questo punto di vista, la prise de pouvoir delle macchine e dei tecnologi che le governano prospettata da più parti è facilmente scongiurabile rammentando che spetta all’uomo di lettere (e ad esso soltanto, non ad un qualsivoglia dispositivo tecnologico) l’interpretazione critica e con facoltà di discernimento dei risultati provvisori forniti dagli elaboratori di calcolo. Un utilizzo consapevole del nuovo mezzo diviene così anche il principale antidoto per impedire che un approccio riduttivamente tecnico pervada anche gli studi umanistici e divenga il sostituto dell’esercizio del pensiero critico. L’intervista a Filippomaria Pontani, professore ordinario di Filologia classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, parte da questi presupposti, mettendo in rilievo da un lato il portato delle trasformazioni tecnologiche nell’ambito della ricerca e della didattica delle discipline umanistiche e allegando dall’altro alcune utili riflessioni e consigli di metodo sull’uso del digitale da parte degli umanisti di oggi e di domani.

 

Professor Pontani, negli ultimi anni anche un àmbito notoriamente poco proclive al cambiamento qual è la specola degli studi umanistici non è stato alieno da una diffusione pervasiva e ubiquitaria della tecnologia digitale, che ha mutato radicalmente diversi aspetti della didattica e della ricerca accademica. I rischi di una deriva tendenziosa, tuttavia, non sono così remoti. Secondo Lei, quali accorgimenti si dovrebbero adottare affinché il digitale non divenga una “fantasmagoria autotelica”, ovvero non costituisca il “fine” ultimo degli studi ma sia piuttosto un “mezzo” di ausilio per gli stessi? Ha in mente un caso preciso, a Lei vicino, in cui questo fenomeno è ravvisabile con particolare nitore?

Ciò che più temo è l’affermarsi di un “pensiero unico” secondo il quale tutto il futuro è digitale: quello delle applicazioni tecnologiche (dove è forse più naturale), quello della didattica (ci torniamo tra un momento), e quello della ricerca in tutte le sue declinazioni. L’esempio classico è quello dei progetti europei (ma ormai sempre più anche quelli italiani), che in una fase di precarizzazione spinta delle carriere dei ricercatori sono diventati praticamente le uniche ancore di salvezza per campare e pubblicare qualche anno in più, e magari in prospettiva per ottenere a suon di dobloni delle posizioni più o meno stabili in un ateneo ben disposto: per farsi finanziare una ricerca è d’uopo indicare diffusamente e con precisione i prodotti di tipo digitale che essa intende creare, anzi, se possibile, addirittura gli avanzamenti metodologici che intende promuovere nell’àmbito delle tecnologie digitali. Nell’àmbito umanistico, se questo secondo scopo risulta (o dovrebbe risultare) a mio parere del tutto estraneo a chi si occupa di storia moderna o di filologia romanza – fatti salvi rari casi, magari anche benemeriti, di studiosi particolarmente portati alla contaminazione disciplinare –, il primo scopo – quello dell’obbligatorietà dei prodotti digitali – è così insensato che ha finito per produrre una quantità di comportamenti opportunistici: ho visto diversi progetti assolutamente tradizionali essere corredati dalla produzione di inutili database, o da profumate collaborazioni con tecnici informatici del tutto ignari della materia ma preposti a inventare qualche marchingegno che potesse essere gabellato per cutting-edge. Con effetti doppiamente mortificanti: da un lato infatti a questo tipo di applicazioni bisogna destinare spesso una parte non piccola del budgetgenerale del progetto (a discapito dunque di materiali più ovvi ma più indispensabili, dai libri ai viaggi di studio ai collaboratori scientifici alle stesse digitalizzazioni di documenti che non rientrano ovviamente nel pacchetto); dall’altro quanto ne emerge è quasi sempre destinato a una vita effimera, perché per creare dal nulla un sito fatto bene e riversarvi gli esiti di una ricerca (la quale ha essa pure i propri tempi) servono di norma tempi ben più lunghi dei 2-3 anni che il progetto concede. Di qui un “cimitero degli elefanti” (non solo in Italia, si badi) di siti iniziati con grandi ambizioni e poi naufragati nell’incuria del tempo, pronti a diventare probabilmente tra non molto nemmeno più leggibili dalle nuove versioni dei browser (del resto, non è accaduto lo stesso con gli infiniti CD prodotti in passato, e ormai praticamente incompatibili con qualunque sistema operativo in circolazione? si somma dunque il problema dell’obsolescenza tecnica con quello dell’abbandono per mancanza di fondi). Non amo parlare per sentito dire, e al di là delle infinite lamentele che ho raccolto nel corso degli anni da amici e colleghi, posso affermare senza tema di smentita che lo stesso progetto ministeriale che ho vinto anni fa insieme a colleghi di altre tre università italiane (verteva su metodi e forme dell’esegesi antica a quattro grandi poeti greci dell’età arcaica e classica) ha dato ottimi frutti sul piano dello scambio di informazioni, del confronto di idee, e delle relative pubblicazioni scientifiche, ma nonostante l’impegno di molti di noi (e di una simpatica tecnologa che si è mostrata sin dal principio prontissima ad aiutarci) è naufragato sul piano dell’allestimento del sito che ci proponevamo di costruire.

Complice un’insistente propaganda tecnocentrica perseguita da diversi enti pubblici e privati (i Ministeri da un lato e i colossi della tecnologia dall’altro), ad oggi l’assenza della tecnologia digitale nell’ambito didattico è vista come un’aporia. Il che ha portato ad infarcire le aule di tablet e ad erogare alcuni corsi in modalità blended anche quando non era strettamente necessario, in ossequio alle mode del momento. Come incentivare un uso consapevole del digitale in aula, in modo tale che costituisca davvero un valore aggiunto per l’insegnamento?

Rimango convinto che la scuola (e parlo soprattutto della scuola dell’obbligo, ma anche dell’istruzione secondaria superiore) debba fornire ai discenti un paradigma anticiclico, un patrimonio di nozioni e di atteggiamenti mentali che difficilmente acquisirebbero fuori di lì. Vedo in altre parole come un grande pericolo l’omologazione della didattica al mondo “di fuori”, inteso come metodi, pratiche e consuetudini – non, si badi, come principio di realtà, perché è del tutto chiaro che la scuola deve anche insegnare a sapersi muovere nell’oggi e anzi a capirlo meglio. In tal senso, giovani che passano buona parte della loro giornata incollati a un piccolo schermo dovrebbero essere educati a prescinderne per qualche ora e a scoprire i pro e i contro di un diverso modello di acculturazione: condivido pienamente, in questo senso, le argomentazioni di Il digitale a scuola (Il Mulino, 2019), tornate di speciale attualità in epoca di Coronavirus. Detesto chi ipocritamente fa finta che non sia Wikipedia il primo port of call cui tutti noi ricorriamo per ottenere un’informazione precisa, e parimenti chi si scandalizza per gli errori più o meno dolosi che costellano le nozioni (storiche, linguistiche, filosofiche, politiche…) reperibili online: si tratta con ogni evidenza di cambiamenti epocali e per ora irreversibili, nonché da vari punti di vista anche utili, né penso pertanto che si tratti di eradicare lo smartphone e i tablet (o ciò che prenderà il loro posto) dalla mente e dalle dita dei giovani; si tratterebbe invece di far sì che essi sappiano usarli in modo consapevole. Questo obiettivo – sul quale penso concordino in molti, e che è sullo sfondo della recente Critica della ragione digitale di Ermanno Bencivenga (Feltrinelli, 2020) – si può raggiungere in due modi: pensando che l’educazione scolastica debba diventare un’educazione al buon uso della tecnologia digitale, e dunque debba sostanzialmente vertere sulla tecnologia medesima per indicarne usi e abusi, e sfruttarla per ogni cosa (PowerPoint dell’ultimo grido per spiegare la prima guerra mondiale, app aggressive per verificare l’apprendimento h 24, tutorials per favorire l’assimilazione di una lingua viva o morta come idioma parlato…); oppure pensando che l’educazione scolastica debba fornire quadri di riferimento (a livello di dati, di date, di sviluppi storici, di idee filosofiche, di paradigmi e tabelline…) che non abbiano diretta tangenza con il digitale, che vengano cioè presentati e appresi in classe in modo “tradizionale”, favorendo così due processi essenziali quali la memorizzazione e la crescita dello spirito critico. Tutto ciò che proviene dal mondo digitale suscita naturaliter una forte passività: farlo interagire con una dottrina appresa sui libri, e mediata dal docente (che deve mantenere, vivaddio, una sua professionalità unica e irripetibile, e suscitare curiosità e dibattito, non limitarsi a recitare il bugiardino dell’iPhone), consente di acquisire un punto di vista diverso e sviluppare una possibilità di critica altrimenti preclusa. D’altra parte, per quanto suoni old-fashioned, la memorizzazione è quanto di più mirabilmente inattuale e utile ci possa essere oggidì: chi sa dire d’acchito – senza cioè smanettare – dove si trova il Kuwait, se viene prima Costantino o Giustiniano, o quale sia l’accento corretto di dormitat, ha un tempo di reazione infinitamente minore dinanzi a qualunque tipo di domanda o problema, e soprattutto finisce con il guadagnarsi in poco tempo un rispetto e una considerazione speciali: lasciare che tutto ciò diventi patrimonio di pochi eletti, magari educati in scuole “di eccellenza” fatte come una volta, mentre nella seconda metà del XX secolo si è largamente operato per portare le nozioni a tutti, lo troverei criminale.

Critica della ragione digitale

Ermanno Bencivenga
Milano, Feltrinelli, 2020, pp. 144

Le nuove tecnologie stanno cambiando la nostra identità e la nostra “postura” nel mondo: quale atteggiamento assumere nei confronti della novità rappresentata dalla civiltà digitale? Ne parla Ermanno Bencinvenga in questo libro con una storia del pensiero occidentale che da Platone giunge fino a Kant.

Un discorso analogo riguarda la ricerca accademica, che vede il proliferare di finanziamenti e progetti intrisi (talora a sproposito) di “digitale”, anche laddove un approccio tradizionale sarebbe stato più utile oltre che preferibile. Può esserci un buon punto di incontro in termini di tecnologia digitale fra le linee propagandate dai programmi quadro europei e le reali necessità delle singole iniziative di ricerca?

Di questo tema ho già parlato sopra: qui aggiungerò al mio generale scetticismo una considerazione più specifica. È del tutto chiaro che le tecnologie digitali sono indispensabili nella ricerca umanistica: nessuno di noi grecisti studia più come prima dell’avvento del Thesaurus Linguae Graecae, che consente di reperire in un clic quelle nozioni che prima si accumulavano in decenni di studio; e lo stesso vale per una serie di altri strumenti che sono diventati nostro pane quotidiano e che peraltro hanno anche contribuito a farci superare momenti difficili come il recente lockdown. Segnalo tuttavia che si tratta in larga parte di banche dati variamente interrogabili, di raccolte di testi, di studi, di immagini, di bibliografie; risorse che è certamente comodissimo avere a disposizione nella nuova forma anziché compulsando vagonate di schede cartacee o scartabellando volumi dispersi in dieci biblioteche diverse, ma che non portano di per sé alcun avanzamento nel nostro sapere. Sono cioè strumenti che modificano il nostro modo di studiare (quasi sempre in meglio), e che come tali è giustissimo siano prodotti, mantenuti, espansi e concepiti da un gruppo di tecnologi in stretto contatto con i futuri fruitori, che sono i ricercatori di oggi e di domani; tuttavia, solo una formazione e un’attitudine alla ricerca di stampo tradizionale consentiranno di utilizzare quegli strumenti in modo prudente e consapevole. Si potranno avere dinanzi a sé tutte le occorrenze di un termine nella letteratura greca, o in quella mediolatina, ma ciò sarà del tutto inutile se non si conosceranno preventivamente a) i limiti del mezzo tecnologico (che ovviamente non potrà mai essere perfetto né onnicomprensivo), b) i contesti linguistici e letterari in cui il termine considerato compare (che richiedono molteplici nozioni di storia, di letteratura, di grammatica, di linguistica…), c) il significato delle occorrenze nel quadro più generale della storia letteraria e culturale, per assodarne le reciproche dipendenze, gli usi “poetici”, le catacresi e i neologismi, le peculiarità accessorie o sostanziali. Il rischio è che, come già vediamo accadere da anni, si infarciscano le tesi (e poi i libri) di una rudis indigestaque moles di passi paralleli che non sono stati preventivamente meditati uno per uno – e che invece, se ben adoperati, riuscirebbero spesso illuminanti.

L’avvento del mezzo digitale ha determinato un rinnovamento dello strumentario a disposizione della didattica scolastica e accademica e della ricerca scientifica. Secondo Lei, l’influenza si è limitata solo ad una rivoluzione del medium o sta estendendo le sue propaggini anche sui contenuti, ad esempio privilegiando la trattazione di determinati temi o aspetti che appaiono più congeniali al nuovo mezzo?

Proprio a questo facevo cenno testé, e secondo me la questione merita di essere guardata da un duplice punto di vista. Anzitutto lo spostamento di ricerche verso l’àmbito digitale: molto si è discusso per esempio negli anni circa le edizioni critiche digitali e le nuove possibilità che si aprono per lavori di équipe capaci di allestire finalmente edizioni affidabili di testi dalla tradizione troppo numerosa o troppo complessa per essere affrontati secondo le tecniche correntemente in uso. Ebbene, ho notato che questa improvvisa popolarità delle edizioni digitali è stata spesso il frutto dell’orientamento (l’ho detto sopra, a mio avviso perverso) dei programmi di finanziamento, piuttosto che un’esigenza in grado di orientare questi ultimi; che cioè – allo stato dell’arte attuale – assai raramente con i metodi digitali si ottengono sensibili progressi su quanto si potrebbe ottenere con metodi più tradizionali, e quando ciò avviene quasi sempre si traduce in un concetto di “fluidità” e “instabilità” che rischia di diventare scoraggiante. In altre parole: non penso – tutti saranno d’accordo – si possa lasciare a un computer la decisione sulla bontà di una variante testuale rispetto a un’altra o anche sul significato e sulle cause della maggiore o minore frequenza di una variante rispetto a un’altra; in testi particolarmente lunghi può essere utile far contare alla macchina gli accordi tra i vari codici in una situazione di forte contaminazione (ma in fondo le tavole di West facevano il loro mestiere già vari decenni fa); e allora se il vantaggio del digitale si esplica non tanto nel modo di procedere quanto nel supporto che consente una presentazione del testo più ricca, io vedo due pericoli: da un lato che questa presentazione (tramite i legami ipertestuali e l’accumulo potenzialmente infinito di informazioni) finisca per rappresentare sempre più una carta 1:1 e dunque esimere l’editore dall’applicare il suo iudicium finendo per proporre un testo stratificato in mille versioni e privo di una forma in qualche modo “originaria”, che il più delle volte – certo non sempre, ma il più delle volte – è invece ragionevole presumere sia esistita; dall’altro lato, si rischia che di nuovo si dimentichi che la dimensione digitale è piuttosto un mezzo che non un’acquisizione scientifica qualsivoglia, e che come tale può essere lasciata a chi si occupa di programmazione, in tandem e in dialogo beninteso con i filologi, ma non deve diventare una branca a sé (e pure assai aggressiva) degli studi umanistici. Dico questo, lo ripeto, non perché abbia alcun tipo di pregiudizio contro il digitale, ma perché vedo concretizzarsi il rischio di ricercatori poco calésnelle rispettive discipline ma ben corazzati nella (peraltro effimera) tecnologia digitale: costoro, per lo più, non faranno avanzare la nostra conoscenza. Dico questo perché credo – lo ribadisco – che il digitale sia assai importante per le humanities, ma proprio perché dev’essere anzitutto uno strumento penso che vada praticato da alcuni pochi gruppi di ricerca dedicati e non debba diventare invece il patrimonio comune e trasversale di ogni singolo Dipartimento di Studi Umanistici. Idem – e peggio – vale per la speculazione relativa al torto e al dritto del digitale, una sorta di meta-disciplina che prende anch’essa sempre più piede e che, di nuovo, penso vada praticata da pochi e in particolari contesti, non debba dunque diventare il benchmark di tutte le comunità di studiosi.

Le cosiddette scienze del testo sono mal descrivibili con lo zero e l'uno, il sì e il no; esiste la possibilità, la probabilità, il dubbio, l'incertezza: a rendere questa dimensione serve il discorso. Non si nega l'interesse verso forme nuove di rappresentazione dei dati; il dubbio è che per questa via si accrescano ipso facto le conoscenze sul testo, cioè che si potenzino le capacità ermeneutiche.

Pasquale StoppelliLa filologia assistita dal computer, in Strumenti vecchi e nuovi, Lecce, Pensa, p. 43

Nell’epoca della pandemia, che ruolo ha avuto o sta avendo il mezzo digitale nell’ambiente accademico? Quali sono, secondo Lei, gli effetti che a lungo termine questa “rivoluzione” della metodologia didattica, giustificata dall’impossibilità di ritrovarsi in aula, può provocare sull’intero sistema di insegnamento (e di apprendimento) universitario?

La cosiddetta “didattica a distanza” ha avuto diversi effetti negativi nell’àmbito dell’istruzione secondaria: ragazzi connessi in modo irregolare, spesso svogliati, non di rado dotati di mezzi inadeguati (sulla questione del digital divide si è molto riflettuto in Francia, assai meno in Italia), obiettivamente privati di quella dimensione di scambio e di socialità che da sempre rappresenta il sale del processo di apprendimento. Ma tra gli altri aspetti negativi ce n’è stato uno a mio parere esplosivo: quello della valutazione. Al di là dei messaggi ministeriali spesso contraddittori (prima “tutti promossi”, poi “bocciate con cautela” e via di questo passo), è risultato immediatamente chiaro che era praticamente impossibile per i docenti valutare le produzioni scritte di ogni tipo (dai test su WeSchool ai temi inviati per posta o per WhatsApp – si è visto anche questo), per la buona ragione che esse potevano essere redatte con l’aiuto di altre persone (e di fatto spesso lo erano: altissimo il grado di invasività delle famiglie nella didattica dei loro rampolli), o come minimo tramite un massiccio ricorso ai contenuti del web (il trionfo di Wikipedia, o meglio – visto che Wikipedia è spesso prolissa e troppo difficile – di Scuola.net o simili); d’altra parte, impostare tutte le verifiche in modo orale non è affar semplice, né per chi deve far risolvere un’equazione né per chi deve far tradurre una versione, dal momento che si tratta di esercizi che richiedono tempo, silenzio e concentrazione, in un ambiente protetto da ogni intervento esterno e da ogni tentazione di “copiare”. Ho fatto questa lunga premessa perché credo che l’università soffra in fondo di problemi analoghi: ancor più acuta, se possibile, la mancanza di quello che è stato per tutti noi il senso profondo dell’esperienza universitaria, ovvero lo scambio costante con colleghi e amici (oltre che con i docenti), la fruizione degli spazi comuni come mense e aule studio, le scoperte effettuate in biblioteca etc. (per non parlare dei laboratori, o della didattica seminariale, che viene potentemente inibita dal mezzo informatico); ma parimenti difficile anche la prassi valutativa, perché gli orali a distanza sono un surrogato talora penoso dell’interrogazione de visu, e soprattutto perché le prove scritte (che anche in università hanno una funzione importantissima) diventano quasi impossibili se non tramite complessi meccanismi di sorveglianza che richiedono oculati cerberi di complemento o, peggio, sistemi di proctoring che violano ogni minima regola di privacy e sembrano configurare occhi orwellianamente pronti a carpire ogni dato sensibile degli studenti non solo limitatamente alla prova ma anche in prospettiva futura. Sia chiaro: nelle situazioni estreme che abbiamo vissute, si è trattato in parte di dinamiche inevitabili (anche se a mio parere non bisognava comunque inoculare sistemi di proctoring nei computer degli allievi); ma deve rimanere chiaro che questa non è la didattica che vogliamo, e non è affatto – come da più parti sento dire, spesso con entusiasmo peloso – un’opportunità per svecchiare i nostri metodi di insegnamento: loin de là.

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Il web si sta rivelando un mezzo sempre più diffuso per la disseminazione della ricerca accademica e, in generale, per la democratizzazione del sapere, come attestano il proliferare di studi diffusi in open access e di biblioteche digitali come Wikisource. Nel recente volume Editing Duemila. Per una filologia dei testi letterari (Salerno Editrice, 2020)Paola Italia ha rilevato come ciò abbia comportato un sostanziale abbassamento della qualità degli studi (risparmiando sull’editing e sulla figura del revisore) e dei testi trasmessi (spesso trascritti da edizioni obsolete o inaffidabili). Il risultato è che il lettore comune legge in rete testi scorretti, mentre i prodotti più avanzati della ricerca restano relegati in sperdute biblioteche di difficile consultazione o in trastulli digitali non indicizzati dai motori di ricerca. Secondo Lei, i filologi potrebbero o dovrebbero fare di più per garantire un ampio accesso a testi letterari affidabili? E se sì, come?

Molto discende da una delle dinamiche consuete del capitalismo senza regole: la tendenza al monopolio. Anche nei nostri studi ormai sono ben poche le case editrici che detengono il potere di una vasta diffusione a livello planetario, e che dunque anche a livello di valutazione della ricerca (in Italia e fuori) “valgono” doppio o triplo o centuplo. Sono le stesse case editrici che spesso fanno pagare cifre altissime per l’open access, e le stesse che si curano di promuovere le loro riviste o financo le loro monografie sulle banche dati che contano, da Scopus a Web of Science (WoS). Queste case – con rare eccezioni – possono anche dedicare per paradosso scarsa attenzione all’editing, e dar fuori prodotti largamente imperfetti (e in effetti ciò accade più spesso di quanto non si pensi); ma è un fatto che difficilmente questi testi saranno meno curati di quelli che provengono da trascrizioni dell’Ottocento o direttamente dal Migne, per dire, e che – come Lei giustamente rileva – sono popolarissimi in rete perché gratuiti (così come sono gratuiti, e per lo più inaffidabili, tanti altri messi a disposizione degli studiosi da battitori liberi in cerca di gloria, frustrati dipartimenti di provincia, simpatici dilettanti allo sbaraglio). Una soluzione è rompere il monopolio dei grandi editori o almeno costringerli a rinunciare a una parte dei loro profitti dando largo accesso alle loro pubblicazioni: non è un compito alla portata dei ricercatori, ma dei decisori politici – non ho per questo alcuna speranza che a breve termine le cose cambino davvero. La linea del Piave dovrebbe essere a mio avviso la lotta per mantenere vive e vegete le biblioteche di studio e consultazione: sempre più minacciate dalla digitalizzazione di massa, esse faticano a rivendicare per sé spazi che si amerebbe allocare ad altre attività più redditizie, e già abbiamo visto – anche a Venezia – materiali ritenuti “dispensabili” o “poco consultati” venire intombati in magazzini disagevoli e remoti, da cui possono emergere solo in rarissime, apposite levate. Ecco, questa evoluzione è a mio parere deleteria, non solo perché il contatto con l’oggetto libro – e soprattutto con una pluralità di libri, come è tipico di tutti i tavoli dei ricercatori – è ineludibile per chi voglia sperare di scoprire qualcosa di nuovo (non fosse che per serendipity), ma anche perché le biblioteche devono continuare a rappresentare fisicamente, com’è da molti secoli, lo spazio fisico della tradizione culturale all’interno delle nostre città – non a caso sono le biblioteche, anzi i bibliotecari che le mandano avanti e le aprono ogni giorno, a valutare e distinguere la pertinenza e il rango dei volumi, e a fornire dunque un orizzonte di riferimento e una forma (sempre rivedibile, beninteso) di digestione per un sapere che altrimenti, ove lasciato alla sola immaterialità del web, rischia la liquidità, lo sfaldamento, l’indistinzione.

Con la sua imponente opera di digitalizzazione, Google Books assurge a divenire la più importante biblioteca disponibile sulla rete, seppur presenti alcuni importanti pericoli e svantaggi dovuti al carattere privato dell’organizzazione e ai labili criteri di selezione dei volumi scannerizzati. Tale atteggiamento è in realtà indicativo di una più vasta tendenza in atto che tende a privilegiare l’attenzione sul “documento” in sé piuttosto che sul “testo” di cui esso stesso è testimone, e si riscontra anche nelle edizioni documentarie e nel rinnovato interesse di accludere una riproduzione del manoscritto nelle edizioni scientifiche digitali. A Suo avviso, a dare (forse troppa) importanza al testimone in sé non si corre il rischio che l’edizione di un testo letterario diventi un esercizio di parafilologismo, in cui il filologo è svuotato del suo compito critico in favore di una mera trascrizione testuale?

È quello che Le dicevo prima, in altri termini: per paradosso l’interesse verso i documenti, e la loro valorizzazione talora scriteriata, ha finito per esentare il filologo da quelle che dovrebbero essere le sue responsabilità e le sue scelte: intendiamoci, non voglio fare l’avvocato di Lachmann o credere che ogni gnomologio o ogni lessico abbia avuto un’unica forma integra e originaria da ricostruire; ma noto come la polemica annosa della “New Philology” (influenzata pesantemente da ormai obsolete istanze decostruzioniste) contro le durezze e la meccanicità del lachmannismo abbia finito per saldarsi con il mezzo digitale per dare l’impressione che ogni testo sia una “pluralità di testi” più o meno tutti sullo stesso piano, e che l’idea stessa di archetipo (in senso largo o stretto) sia vitanda, semplificatoria, assurda. Partecipando a un gruppo di ricerca in Svezia, dal nome promettente “Ars Edendi”, ho toccato con mano insieme ad altri colleghi, in lunghe discussioni critiche, la dimensione e i pericoli di questa deriva: si finiva talora – parlo soprattutto di testi mediolatini dalla tradizione ricca e complessa – per prediligere la riproduzione di una stampa recente o di un manoscritto particolarmente diffuso, correggendo quel testo qua e là con l’aiuto di altri testimoni – un singolare trionfo postumo di Bédier, con l’aiuto di Google Books, di Digital Bodleian (per dire) e di Internet Archive. Ciò detto, vorrei dissociarmi però dalla polemica preconcetta contro le piattaforme che mettono a disposizione digitalizzazioni di libri antichi, perché senz’altro seguiranno criteri discutibili e talora insani, ma di fatto hanno avuto e stanno avendo un ruolo decisivo per la democratizzazione del sapere e per la facilitazione della ricerca worldwide; ancora una volta, spetta a noi far sì che queste risorse vengano messe a buon uso.

È noto il divario (più o meno reale) fra le discipline scientifiche e quelle umanistiche, al punto che è invalsa l’antitesi assai riduttiva fra scienze “dure” e “morbide” – la quale sottende anche un sottile giudizio qualitativo nella terminologia adottata. In questo senso, l’“impronta digitale” potrebbe svolgere un ruolo centrale nel superamento di tali antinomie e restituire alle discipline umanistiche un ruolo non solo ancillare ma propositivo, vòlto alla comprensione del pensiero e dei fenomeni della società contemporanea? E se sì, in che modo?

Non credo. Pensare di salvare la cultura umanistica dal trionfo della tecnologia (ancor prima che delle scienze “dure”, che nella loro declinazione più teorica sono esse stesse spesso minacciate) tramite gli sponsali promossi dal digitale pronubo è una strada perdente: lo ha mostrato molto bene l’amico Lorenzo Tomasin nel suo libro L’impronta digitale (Carocci, 2017), dove, da esperto linguista, affronta anche un altro grande pericolo di questa visione, ovvero la riduzione di tutti gli strumenti comunicativi al trionfo di una sottospecie di inglese. La cultura umanistica, da che mondo è mondo, le humanae litterae, o la paideia nel senso più lato, procedono iuxta propria principia: naturalmente tutto può essere proposto in vario modo a livello pedagogico, e – torno a dire – gli strumenti digitali possono rivelarsi molto utili per consentire ricerche fin qui assai ardue o per far giungere i risultati delle ricerche ad un pubblico molto più vasto di prima (pur con tutti i limiti che abbiamo enumerato sopra). Ma rilutto davvero a pensare che gli humanioradebbano trovare nel digitale la loro nuova essenza, il loro nuovo proprium, e ricevere da esso quel pedigree di scientificità che altrimenti non potrebbero vantare. La cultura umanistica serve per la comprensione del mondo, della nostra storia, di quello che siamo: ha un discorso suo proprio e una sua giustificazione intrinseca, oggi più recessivi nel panorama del dibattito pubblico, magari domani di nuovo più smaglianti; non deve scambiarli per altri, che risulterebbero inevitabilmente posticci ed effimeri.

Filippomaria Pontani (1976) è professore ordinario di Filologia classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha tenuto alcuni corsi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, all’École Normale Supérieure di Parigi e all’Université Paris IV Sorbonne ed è organizzatore di alcune soirée e letture pubbliche (dell’Odissea, degli Inni omerici e di Kavafis); dal 2010 è coordinatore insieme al prof. Alberto Camerotto del progetto Classici contro. Ha preso posizione su diversi temi “civili” ed è intervenuto come ospite nei programmi televisivi Match su Tv7 Triveneta e Agorà su Rai 3. Ha collaborato per “il manifesto” (2014-2015) e attualmente scrive per il giornale online “Il Post” (dal 2010) e “il Fatto Quotidiano” (dal 2017).

Per saperne di più

L’autore desidera ringraziare il prof. Filippomaria Pontani per la disponibilità a concedere l’intervista e la dott.ssa Paola La Barbera per i preziosi consigli e suggerimenti. Una nota di ringraziamento alla Biblioteca Nazionale Marciana per aver fornito l’immagine di copertina, che ritrae la Sala Lettura Stampati della biblioteca (copyright: Andrea Pattaro/Vision).

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