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Cita questo articolo come: Pellizzaro, Damiano. «Questione di prospettiva». Humanities for Change (blog), 6 settembre 2019. https://bembus.org/2019/09/06/questione-di-prospettiva/.

Ad un paio di mesi di distanza dal provocatorio articolo di Gilberto Corbellini sul Sole 24 Ore riguardante l’inutilità del pensiero storico, le risposte sono state poche e flebili. Qui non ci proponiamo di entrare nel merito della tesi espressa dall’esimio studioso del CNR, preferiamo invece presentare un caso che a nostro avviso potrebbe suscitare una riflessione sul tema anche in chi non studia la storia di mestiere.

Due antefatti

Nel 1611 cinque nobili vicentini feriscono con un’arma da taglio un loro avversario, che sopravvive all’aggressione. Recatisi a Venezia per difendersi in tribunale, vengono da ultimo messi in carcere. Il 2 giugno dell’anno seguente chiedono al Collegio una grossa riduzione della pena, imperniando la loro supplica sul fatto che erano riusciti a stipulare una pace con il loro nemico ferito:

Vicenzo Giacomazzo sopraditto, et già nostro avversario, sapendo la verità dei successi, ha voluto fare con noi la pace, la qual è seguita sotto il 15 di Genaro passato, et mentre habbiamo con tal mezo sedati, et sopiti gli odii, li rancori, et l’inimicitie, restiamo tuttavia circonvinti da tante miserie, patimenti, et danni.

Archivio di Stato di VeneziaCollegio, Suppliche, Risposte di dentro, 2 giugno 1612

A distanza di secoli, nel 1981 Antonio Pelle, ‘ndranghetista del borgo calabrese di San Luca, chiede al Presidente della Repubblica la grazia per un omicidio commesso anni addietro. Tra le motivazioni e le prove a favore figura anche un documento notarile in cui il fratello dell’ucciso dichiara che l’uccisore ha adempiuto a tutti gli obblighi che casi del genere richiedono.

Tintoretto

Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Il doge Girolamo Priuli riceve dalla Giustizia la bilancia e la spada, ca 1562-65. Olio su tela, 230×230 cm. Venezia, Palazzo Ducale, Atrio Quadrato

State law e common law

I due episodi si riferiscono a contesti molto diversi: nel primo caso si tratta di persone appartenenti all’aristocrazia cittadina della terraferma veneta in un periodo in cui la politica veneziana nei loro confronti si era fatta più dura e intransigente; nel secondo caso invece i protagonisti sono membri di alcune famiglie vissute secoli dopo in un paese dell’Aspromonte, affiliate al complesso sistema economico e sociale della ‘ndrangheta.

L’accostamento di questi due casi potrebbe far pensare all’idea ormai divenuta un cliché dell’arretratezza della società italiana del Meridione, priva di una vera etica statale e intrisa di familismo amorale. In realtà l’analisi storica permette di dare ragione di un fatto piuttosto interessante, ossia la compresenza all’interno di diversi gruppi umani di una visione sfaccettata della legalità: in molte società – ad esempio quella dello stato da tera veneto ad inizio Seicento – la forma di organizzazione più ampia cerca di darsi una struttura coerente esercitando il potere in modo uniforme all’interno del suo territorio. Nel fare ciò crea delle regole e dei modelli culturali di comportamento, prime fra tutti le leggi e la legalità. Tuttavia, siccome lo stato non è un’entità astratta, ma è formato da persone in carne e ossa che vivono pensieri e situazioni talvolta opposte, la ricezione di questi modelli non è omogenea nel tempo e nello spazio.

Questa disuguaglianza nell’appropriarsi di un certo modello di legalità è acuita dal fatto che alcuni gruppi sociali, spesso a livello locale, possono concorrere ad elaborare una diversa concezione delle regole: questa dicotomia tra una state law e una community law ci permette di comprendere meglio alcuni fenomeni, tra i quali senza dubbio quelli che abbiamo citato. In entrambi i casi i protagonisti rifiutano o si oppongono alle indicazioni delle leggi “ufficiali”, rifacendosi invece ad un istituto proprio della loro community law, cioè la pace. Le intenzioni sono diverse, gli uni rifiutano l’ingerenza giudiziaria veneziana all’interno di questioni legate ai rapporti tra le famiglie nobili vicentine, gli altri cercano di evitare le pene previste dalla legge italiana per preservare le proprie attività illecite. Ad ogni modo emerge chiaramente il fatto che i soggetti percepiscono la risoluzione dei conflitti relativamente alla propria comunità di appartenenza, ed in modo profondamente diverso rispetto a come dovrebbe essere secondo l’entità statuale.

Storia e potere

L’elemento che ci preme sottolineare da questi esempi è che la storia ci è utile in quanto consente di applicare categorie un po’ più precise per descrivere le questioni trattate: lo studio delle suppliche nel ‘600 veneto ci permette di ricostruire, per quanto riguarda lo stato moderno, una serie di rapporti culturali e giuridici in cui il potere non è una prerogativa esclusiva dello stato, ma viene esercitato lungo direttrici diverse e attraverso canali molteplici. Grazie alle numerose ricerche storiche e antropologiche compiute negli ultimi quarant’anni possiamo finalmente abbandonare l’idea, pur di nobili natali ma alquanto antiquata, dello Stato come massima espressione della vita comunitaria e della Storia come percorso verso la sua realizzazione e considerarlo invece per quel che è, ossia una delle molte forme in cui i gruppi umani si possono organizzare ed esercitare il potere. D’altronde, come scriveva Foucault:

Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o piuttosto qualcosa che non funziona che a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare.

Michel FoucaultMicrofisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Torino, Einaudi, 1977, p. 184
Michel Foucault illustrato

In questo senso, il potere non dev’essere inteso unicamente nella sua dimensione politica ed economica, ma si deve considerarne pure la sua valenza “culturale”, cioè la capacità di elaborare un’etica fatta di concetti e idee alternative a quelle dell’organizzazione statale. Smettere di valutare le forme culturali di dissenso – anche quelle più violente e assolutamente detestabili – come qualcosa di anomalo e arcaico e includerle invece in una cornice interpretativa che rispecchi meglio la realtà attuale ci può dare la possibilità di fare scelte più consapevoli e ragionate sul piano sociale e politico. E, dopotutto, la storia serve anche a questo.

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