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Cita questo articolo come: La Barbera, Paola Carmela. 2019. «Sul mito e sull’attualità del suo linguaggio». Humanities for Change (blog), 22 novembre 2019. https://bembus.org/2019/11/22/sul-mito-e-sullattualita-del-suo-linguaggio/.

“La speranza è l’ultima a morire”. Chi è d’accordo? A discapito dello scetticismo di chi non si piega a luoghi comuni né si adagia su comodi “prefabbricati”, dei proverbi si fa uso e abuso, proprio e improprio. Frasi di circostanza, forse sì, eppure cariche di una forza così espressiva che gli ha garantito fama imperitura. Queste scontate parole sono in realtà prese in prestito da un repertorio di insegnamenti che attinge al sostrato più profondo della conoscenza umana: il mito, che continua a viaggiare per secoli attraverso diverse forme del linguaggio. E infatti, Speranza era nota ai Greci e faceva la sua apparizione nelle vicende di Pandora, la prima donna ad esser stata creata e mandata agli uomini come punizione. Nel mito, la fanciulla, prototipo della donna e dell’universo femminile, non ascolta le ammonizioni di Zeus a non aprire quell’orcio che proprio egli le aveva offerto. Pandora, vinta dalla sua (stereo)tipica curiosità, apre il vaso da cui escono impetuosi i mali che da allora affliggono il genere umano. Solo qualcosa resta sul fondo: la speranza. Così Pandora, che spaventata si era affrettata a richiudere il coperchio, riapre in un secondo momento il vaso e Speranza è così libera di aggirarsi sulla Terra per consolare gli uomini dagli altri mali prima liberati.

Da un punto di vista semiotico, il racconto nasconde allegorie sotto ogni dettaglio e permette innumerevoli riflessioni (ad esempio, sulla subdola pianificazione di Zeus che prima plasma Pandora curiosa e poi le invia un dono vietandole di aprirlo, e di conseguenza, istigandone la curiosità), ma ciò che è perdurato nell’immaginario comune è la centralità e la necessità del ruolo di speranza nella vita umana. La speranza fa accesso nel mondo dei mortali insieme ai mali, ma assolve l’antitetica funzione di alleviarli. La volontà divina ha voluto l’uomo sofferente ma speranzoso, in un dolce-amaro che distingue la vita dell’uomo da quella dell’animale. Che si guardi al passato o al presente, il rapporto dell’uomo con Speranza è strettissimo e dev’esser diventato realmente morboso se un altro proverbio più cautamente ricorda che “chi di speranza vive, disperato muore”. Un contraltare: qualcuno che ha fatto troppo affidamento sulla Speranza sarà rimasto davvero scottato dalle disattese aspettative. Ciò detto, il mito di Pandora esorta a sperare e, che dir si voglia, nessun uomo ha mai smesso di farlo.

Questione di punti di vista

Affascinante conoscere i miti, ma questo non basta a capirli e a coglierne l’importanza. Gli insegnamenti offerti da essi si adeguano perfettamente all’esperienza di ogni essere umano, e la distanza che ci separa da queste narrazioni, che noi stessi releghiamo alla sfera del fantastico, è piuttosto fittizia. Come per le favole (ma perlomeno queste hanno goduto di più fortunato destino), obiettivo ultimo del mito è spiegare e insegnare. Il mito nasconde qualcosa di più profondo dietro il filtro del linguaggio, bisogna però guardare bene. Secondo la chiave di lettura di Friedrich Max Müller, l’ascesa del sole che sorge dopo le prime luci dell’alba trova concretezza nella rappresentazione di Sole che, innamorato di Aurora, la insegue, richiamando quel moto astrale (apparente) che scandisce il susseguirsi di alba e tramonto. Non a caso, secondo Müller, nel mito greco il dio del sole Apollo si innamora di Dafne, il cui nome altro non è che la traslitterazione del sanscrito Ahand, “alba”. Proprio perché il mito tenterebbe di far chiarezza su fenomeni naturali un tempo incomprensibili, oggi il progresso scientifico colloca il racconto mitico a un ruolo marginale. A torto, però, questa marginalizzazione ha investito anche miti il cui focus non sono i fenomeni fisici, ma temi che rientrano nella sfera dell’etica. Un esempio: il gigante Orione, da cui prende il nome la costellazione, è per i Greci il più abile cacciatore mai esistito. Secondo la versione di Apollodoro, Orione sarebbe stato ingannato da Enopione, re dell’isola di Chio, il quale promise in sposa sua figlia Merope al cacciatore se questi avesse ucciso tutte le belve feroci che minacciavano la quiete dell’isola. Il gigante non esitò a sterminare le bestie, sebbene il matrimonio promesso gli fu poi negato. Nella sua misera condizione, Orione si macchia di fatto dello sterminio animale. Il mito circolava in numerose varianti, pertanto anche la sua morte è tramandata differentemente. Una versione narra che ad ucciderlo sia stata Artemide, dea della caccia, temendo che il cacciatore potesse sterminare tutti gli animali della terra. Un’altra versione vuole Orione ostentatore della sua bravura nell’arte della caccia: sfidando la dea Artemide ne istigò la rabbia, e questa lo uccise. Walter Burkert ha fornito una lettura “storica” del racconto mitico, osservandolo nell’ambiente sociale in cui esso è prodotto. Il mito di Orione è un tentativo di esorcizzare il senso di colpa di una società quale quella paleolitica che basava il suo sostentamento sull’uccisione della selvaggina, prima di conoscere l’agricoltura. Burkert ha posto l’attenzione sugli “archetipi psichici ereditari”, ovvero quei valori etici e sociali sviluppati dall’“inconscio collettivo” e pertanto condivisi dall’umanità intera. Orione rappresenta la minaccia dello sterminio di tutti animali terrestri di cui si nutre l’umanità: il mito insiste sulla necessità di limitare la caccia a quanto necessario al nutrimento e ammonisce a non varcare questo limite, fondamentale per l’equilibrio dell’universo. Si caccia quanto basta in funzione di quanto serve e il margine è pertanto insito dalla natura stessa. 

Poco attuale? A nessuno di noi sfuggiranno le immagini di allevamenti intensivi sui quali non spenderò alcuna parola. La produzione che supera il consumo è il manifesto della nostra società che gioisce di fronte alle maxi offerte negli ipermercati dei 3 al prezzo di 2. Lo stesso sollievo si infonde nei cuori alla vista di scaffali ricolmi di prodotti al ribasso. Il nostro mondo è ormai distante da quello di Orione, eppure i Greci si sono trovati ad affrontare questioni affini alle nostre. La differenza sta piuttosto nel modo di affrontarle. Per gli Antichi la natura è misura e definisce il limite dell’azione umana. L’uomo non osa oltrepassare quel varco perché, se lo fa, viene punito. Per noi, la natura è il limite cha va superato.

Orion Hevelius

Quei lontani cugini greci

Più di quanto immaginiamo, i miti ci permettono di riflettere sul mondo attuale, indagano sulle nostre paure, cercano risposte ai nostri interrogativi e più spesso ne creano di nuovi, ampliando il terreno di riflessione. La vicenda di Icaro e Dedalo è incentrata sul rapporto fra padre e figlio. Dedalo crea delle ali artificiali per sé e per il figlio Icaro al fine di scappare in volo dal labirinto di Minosse, in cui i due sono prigionieri. Icaro non rispetta però una semplice regola: non avvicinarsi al sole rovente, che avrebbe sciolto la cera con cui Dedalo aveva costruito le ali. Superando un limite imposto, Icaro paga questo errore con la morte. Il mito insiste anche sulla frustrazione del padre, che fornendo al figlio il mezzo per salvarsi, ne determina di fatto la morte. E Dedalo, che maledice la sua scienza scorgendo tra le onde le piume delle ali del figlio precipitato in mare, non sperimenta forse sulla sua stessa pelle il punto di non-ritorno del progresso tecnico e scientifico, troppo bonariamente concesso a una mente ingenua quale quella di Icaro? Detto in altre parole: la tecnica pertenga alle mani e alla mente di chi sa usarla! Nessun progresso tecnico-scientifico è davvero tale se manca la coscienza critica di chi ne dispone. Possiamo anche vantarci di saper ri-scavare i canali di Venezia ma questo a poco giova se il fine è permettere a enormi imbarcazioni di passarvi attraverso e se la conseguenza è deleteria per le fondamenta urbane, per l’equilibrio dei flussi d’acqua e per la vita cittadina.

Ailes battantes Luc Viatour

Insomma, i Greci avevano già affrontato le medesime questioni che crucciano oggi la nostra esistenza quotidiana: seppur in altri termini, con Icaro e Dedalo avevano realizzato che scienza e humanitas andavano integrate per garantire il vero progresso; con Orione avevano riconosciuto il valore dell’eco-sostenibilità; più generalmente, i Greci erano curiosi di fronte a fenomeni fisici e, come tutti noi, non smettevano di sperare. Il mito è attuale, ma parla con un linguaggio a cui purtroppo non siamo più abituati, cosicché leggerlo ci sembra futile. Eppure non sempre. Mi preme infatti citare, in ultimo, un passo di Davide Enia, tratto dal suo romanzo Appunti per un naufragio:

Dove c’è la guerra, non si scappa in aereo. Si fugge a piedi. (...) Quando la terra finisce, si sale su una barca. Parto dunque dalle origini, ché è una la fonte da cui sgorga l’acqua che ci abbevera. In fondo è sempre la stessa storia. Una ragazza fenicia scappa dalla città di Tiro, attraversando il deserto fino al suo termine, fino a quando i piedi non riescono più ad andare avanti perché di fronte c’è il mare. Allora incontra un toro bianco, che si piega e la accoglie sul dorso, facendosi barca e solcando il mare, fino a farla approdare a Creta. La ragazza si chiama Europa. Questa è la nostra origine. Siamo figli di una traversata in barca.

Davide EniaAppunti per un naufragio, Palermo, Sellerio, 2017, p. 147

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